“La ricerca ha fatto passi da gigante. Sono sicura che tanto ancora succederà”. Intervista alla Dott.ssa Alessia Casamassa

Intervista alla Dott.ssa Alessia Casamassa, PhD presso il laboratorio di ricerca diretto dal Prof. Angelo Vescovi

La Dott.ssa Alessia Casamassa ha conseguito la laurea triennale in Biologia e successivamente la laurea Magistrale in neurobiologia presso l’Università La Sapienza di Roma. “Già dalla triennale sentivo una forte passione per lo studio del cervello, ma ero attratta anche dalla parte neuropsichiatrica e psicobiologica. La laurea quindi in neurobiologia mi dava la possibilità di unire entrambe le passioni e approfondire lo studio di questo organo ancora così sconosciuto” ci racconta la Dott.ssa Casamassa durante l’intervista che ci ha permesso di scoprire il suo ruolo e i progetti di ricerca che la vedono coinvolta nel team di ricerca del Prof. Angelo Vescovi.

 

Dott.ssa Casamassa, come è iniziata la sua esperienza nel team di ricerca diretto dal Prof. Angelo Vescovi?

La mia prima esperienza è iniziata con un tirocinio di un anno presso il laboratorio di ricerca diretto appunto dal Prof. Vescovi ed è proseguita alla fine della tesi magistrale, quando la Dott.ssa Jessica Rosati, coordinatrice del gruppo di riprogrammazione cellulare nel team del Prof. Vescovi, mi ha permesso di svolgere il mio dottorato di ricerca nel suo gruppo. L’esperienza maturata fino ad ora sia di tirocinio che di dottorato è stata molto importante per la mia crescita lavorativa e personale perché mi ha permesso di avere un approccio versatile nello studio delle malattie neurodegenerative. Ho appena concluso il Dottorato di Ricerca, durato 3 anni, e continuerò a lavorare nel gruppo di ricerca coordinato dalla Dott.ssa Rosati.

 

Quali sono i progetti di cui si occupa nello specifico?

Io in particolare seguo due progetti riguardanti due differenti malattie neurodegenerative: la prima è l’Atassia Spinocerebellare di tipo 17, detta SCA17: i pazienti presentano dei disordini nella coordinazione del movimento e del cammino. Essendo una malattia neurodegenerativa, a questo disturbo sono spesso associati anche disordini cognitivi. La seconda è invece la malattia di Parkinson: sia la malattia idiopatica, la cui causa genetica non è ancora nota ad oggi perché non fa parte del classico pannello di geni conosciuti, sia il Parkinson dovuto a mutazioni note. Nello specifico, mi occupo dello studio delle mutazioni in un gene che si chiama GBA.

 

Che differenze nota tra i due progetti di ricerca?

Entrambi i progetti sono complessi, ma nel caso della SCA17, non essendoci ricerche passate o altre pubblicazioni da cui partire la ricerca pone qualche sfida in più.  Tuttavia è stimolante l’idea di avere ancora tante cose da capire e da vedere, e anche quando un esperimento restituisce risultati negativi, quell’informazione potrà essere condivisa con altri gruppi e utile ad altri ricercatori, perché l’obiettivo della comunità scientifica è quello di lavorare tutti insieme per un fine comune, in un clima dove sia dati positivi che negativi possano essere a disposizione di tutti.

 

Lavora direttamente sulle cellule staminali?

Dal punto di vista pratico studio i modelli cellulari. Nello specifico, partendo dalle biopsie dei pazienti, prelevo campioni cellulari (i fibroblasti) dalla pelle di questi ultimi e li riprogrammo in cellule staminali pluripotenti indotte. Essendo pluripotenti, queste cellule hanno la capacità di differenziarsi in vari tipi cellulari, come ad esempio nella specifica popolazione neuronale colpita dalla malattia che si vuole studiare. Questo tipo di tecnica è minimamente invasiva per il paziente che dovrà sottoporsi solo ad un piccolo prelievo di pelle.

 

 Come si svolge la sua giornata lavorativa?

La mia giornata lavorativa è molto piena e tendo sempre ad organizzarla con la massima efficienza, così da ottimizzare al meglio le ore in laboratorio: organizzo le informazioni e i materiali per la sperimentazione, mi accordo con i colleghi per l’uso degli strumenti necessari e attendo poi i risultati. Spesso possono esserci dei tempi di attesa lunghi ma, in quel lasso di tempo cerco sempre di avviare altre sperimentazioni o studiare altre pubblicazioni.

 

Se pensa al futuro della ricerca è ottimista?

Personalmente vedo il futuro della ricerca con ottimismo, non solo perché questo periodo storico ha messo in luce l’importanza della ricerca scientifica e la figura del biologo, ma anche perché negli anni la ricerca ha fatto passi da gigante e sono sicura che tanto ancora succederà negli anni a venire. Ciò che tanti anni fa era considerato fantascienza oggi, grazie alla ricerca, è divenuto possibile.

 

Qual è il suo sogno professionale?

Il mio sogno nel cassetto è di riuscire a dare un contributo alla comprensione delle cause che generano le malattie neurodegenerative di cui mi occupo. Di solito il biologo/ricercatore non entra in contatto con i pazienti come per esempio fa il medico – nonostante mi sia capitato. Tuttavia lavoro ogni giorno sulle loro cellule e sapere che si tratta di cellule provenienti da persone che stanno male mi dà la forza di studiare, fare esperimenti e lavorare anche tante ore al giorno per raggiungere nuovi risultati e contribuire, un giorno, a una nuova scoperta capace di dare sollievo ai pazienti che stanno male e alle loro famiglie.